Architettura aquilana delle origini: l’intervento di Mons. Orlando Antonini
Ieri ricorrevano i 750 anni dall’inizio della prima
ricostruzione dell’Aquila, dopo la distruzione della città operata nel
1259 da re Manfredi. Molti gli eventi che si sono tenuti il 9 e l’11
aprile per tale ricorrenza, compresi importanti incontri culturali. Vi
proponiamo quello di Mons. Orlando Antonini, nunzio apostolico ed
insigne studioso di architettura religiosa e urbana, nel quale è
tracciata la storia della città nel periodo angioino riguardo la
costruzione dello straordinario patrimonio d’architettura sacra
dell’Aquila, in gran parte pervenutoci nonostante i numerosi
terremoti susseguitisi in oltre sette secoli.
“Per origini della città dell’Aquila intendo il periodo storico che
va dal 1229 dei primissimi trasferimenti di popolazione sul colle di
Accula al 1316 dell’elevazione delle Mura Urbiche definitive, con al
centro la distruzione 1259 della città sveva e la rifondazione angioina
di essa a partire dal 1266 – Buccio di Ranallo scrive 1265. Circa la
fondazione dell’Aquila io com’è noto condivido la tesi di quegli autori
secondo i quali la città – a parte la sempre più fondata ipotesi di una
città romana scomparsa, forse Prifernum, esistente pressappoco sullo
stesso sito – in quanto centro abitato dev’essersi formata non a seguito
del 1254 del diploma di Corrado IV ma del 1229 della bolla di papa
Gregorio IX. Il famoso 1254, cioè, rappresenta non la data del materiale
inurbamento, bensì solo quella dell’elevazione ufficiale a città ed a
capoluogo di nuovo Comitatus di un abitato già esistente, formatosi
appunto nei trent’anni precedenti. Creare infatti dai due Comitatus di
Amiterno e di Forcona un unico nuovo Comitatus con i suoi indispensabili
uffici politico-amministrativi ma su un capoluogo ancora da fondare,
come vuole la tesi tradizionale, non ha senso. Né pare aver senso una
città che, se iniziata a costruire nel 1254 o solo qualche anno prima,
appena cinque anni dopo possa aver costituito una minaccia per il potere
imperiale tanto da venirne assediata e totalmente distrutta come si sa
nel 1259. L’obiezione poi secondo cui Federico II nella sua concezione
autocratica non avrebbe mai consentito alcun eventuale insediamento
autonomista, si fa aleatoria sia in quanto non si sa fino a che punto
l’imperatore controllasse effettivamente il territorio di frontiera
amiternino-forconese in quel periodo di note ribellioni dei conti
locali, sia in quanto in quel 1229 la citata bolla papale aveva revocato
al demanio della Chiesa il territorio medesimo, rimuovendone pertanto
la giurisdizione imperiale e sciogliendo gli abitanti dal giuramento di
fedeltà; inoltre vi aveva ormai autorizzato l’inurbamento in parola.
Infine, neppure la tassa di 10 mila once posta per il rilascio
dell’autorizzazione papale alla fondazione può considerarsi una somma
esorbitante per le popolazioni, atteso che una condizione del genere si
suppone fosse usuale e comunque sia stata accettata già in sede di
negoziato. In breve per noi, stanti le varie accezioni che del vocabolo
Città si riscontrano nelle fonti, la ‘città da costruire’
documentalmente aggiudicata come si sa nel 1253 al Conte di Mareri, non
fu altro che la sede della Città, ossia i Palazzi Pubblici e le Mura
Urbiche, simboli cittadini per eccellenza. In ogni caso un dato di fatto
è l’esistenza, inglobati nelle chiese successive, di resti di sezioni
edilizie anche cospicue anteriori non solo al 1259 della distruzione
della città per mano di re Manfredi, ma anteriori anche al summenzionato
1254. Questi resti strutturali indicano che se esisté sul colle di
Accula una storia edilizia anteriore alla data ufficiale della
‘fondazione’ della città, dové esistere altresì una sua storia urbana in
quel periodo.
Questo connubio tra comunità politica e comunità cristiana faceva in maniera che gli edifici parrocchiali assumessero anche una chiara funzione civica, oggi diremmo ‘laica’. Era nelle parrocchie che si risultava cittadini appartenenti ad un determinato ‘locale’ – l’anagrafe – da lì potendosi fornire, quando richieste, le cosiddette ‘fedi’ per i censimenti. Lì si raccoglievano tasse e collette civiche. Lì si arruolavano i soldati per le milizie cittadine. Era nelle chiese parrocchiali che si svolgevano le elezioni. Lì si stabilivano i rappresentanti locali ai parlamenti e alle ambascerie. In particolare, esse costituirono la sede ufficiale di parlamento delle università. I cittadini vi si radunavano periodicamente per trattare problemi d’ogni genere del rispettivo ‘locale’, da quelli di politica ‘interna’ del comune a problemi più spicci delle singole università, quali l’aggregazione di ‘forestieri’ al locale o il fitto degli erbaggi della montagna. E furono le chiese principali di essi a intitolare i quattro Quarti in cui nel 1276 la città e il territorio furono suddivisi, per questo appellate chiese capo-quarto, ed a fungere da loro luogo di parlamento, avendo bannera propria con proprio colore, mentre la bannera della città aveva aquile bianche in campo rosso – come sapete, gli attuali colori cittadini nero e verde furono introdotti a seguito dei lutti del terremoto del 1703: non sarebbe male a mio giudizio, proprio allo scopo di esorcizzare le ricorrenti devastazioni sismiche della città, tornare ai colori originari bianco e rosso.
Orbene, fin dalla prima fase fondativa i cittadini, in quel medioevo di fede e di maggiore apertura alla trascendenza, fornirono i loro primi insediamenti degli adeguati servizi religiosi, quindi specialmente la costruzione di chiese. Nell’iniziale trentennio 1229-1259 ci si dové avvalere di edifici di culto preesistenti sul colle e che dovevano certo mostrare forme stilistiche e spaziali romaniche, come attestato dai resti strutturali o scultorei che per brevità vi invito a trovare nelle mie pubblicazioni. Furono invece elevate chiese di pianta negli anni Trenta e Quaranta del ‘200 in ragione dell’urbanizzazione che s’andava intensificando e non a caso, quindi, recando forme borgognone proto-gotiche: ad esempio la chiesa le cui tre absidi su pianta retta cistercense i castellani di Sant’Anza più tardi riutilizzeranno per propria parrocchiale di San Nicola, oppure il San Giorgio della fiancata Nord di Santa Giusta su via del Grifo, tessuta in arcaico apparecchio aquilano di selci e includente un portale sestiacuto tipicamente proto-gotico cistercense. Più cospicuo numero di chiese parrocchiali e monasteriali dové naturalmente elevarsi tra 1254 e 1259. Si pensi a quelle deducibili dai documenti di poco anteriori a tale anno: un San Pietro di Sassa in piazza del Mercato, una Cattedrale che doveva essere sul posto del San Giorgio poi Santa Giusta, un San Francesco, un San Domenico, un San Marciano, mentre per il 1257 si citano una Santa Giusta, un San Vittorino e/o San Biagio, un San Pietro di Coppito, un San Paolo di Barete, una Santa Maria di Forfona; altre sono attestate monumentalmente, come la chiesa cui appartennero il portale e la rosa gotico-borgognoni poi riapplicati sulla facciata di Santa Maria di Roio.
***
Nella seconda fase fondativa, dal 1265 o 66 in poi, dopo nemmeno tre lustri dall’aver inaugurato la prima, grazie all’autorizzazione angioina ed alla certa presenza dei loro urbanisti francesi e dei nostri Cistercensi, gli Aquilani si rimisero in movimento per costruire una seconda città. Quantunque secondo le nostre ricerche questa fu meno vasta di quella del 1229-1259, si trattò di un cantiere enorme perché i castelli dovettero materializzare, in poco tempo e in contemporaneità, sia l’edilizia privata, sia quella civica e ‘statale’ (la sede del Comune, il palazzo del Capitano, il palazzo regio), le opere di pubblica utilità e di difesa (la Fonte della Rivera, le Mura Urbiche) e sia l’edilizia parrocchiale. Dato che nel 1259 re Manfredi aveva incendiato e distrutto tutto quanto amiternini e forconesi avevano costruito fra 1229 e 1259 accanto notate alle rovine di quella che crediamo fu Prifernum, gli Aquilani poterono impostare senza troppo condizionanti preesistenze abitative il nuovo piano urbanistico. Nel 1272-75 il capitano Lucchesino assieme alla Fonte della Rivera costruì la nuova cinta di difesa in muratura.
In questa epopea costruttiva le architetture parrocchiali si suppone debbano aver iniziato ad essere riedificate fin dal 1266, giacché, come s’è detto, erano parte integrante della struttura portante del Comune, necessarie al suo funzionamento a livello cellulare. Dové trattarsi, già, di alcune decine di chiese, una per ciascun castello e frazione di castello reinurbato in quel primo periodo degli Angioini. Dalla documentazione, ben scarsa, che si possiede, quindi basandosi per lo più sul confronto di elementi stilistici e tecnici come il tipo di tessitura muraria ad apparecchio aquilano leggibile su alcune di esse con qualche sporadica data di riferimento è possibile dedurre l’appartenenza di varie di queste chiese a medesime maestranze edilizie, e dunque ad una medesima fase ricostruttiva, quella degli anni sessanta e settanta del ‘200. Così abbiamo un San Silvestro del 1265 o 85 precedente all’attuale, un San Liberatore del 1268 (poi San Ludovico, oggi la Concezione), San Marciano del 1276, la coeva Santa Maria di Roio, il demolito San Giustino poi San Martino di Chiarino, Santa Maria di Paganica, una adesso quasi scomparsa Santa Maria di Cascina del 1283, la pure demolita Santa Maria di Tempera del 1285, il San Pietro di Sassa del 1289 di cui resta solo la base della torre campanaria, il San Pietro di Coppito che vediamo dopo il ripristino morettiano, l’odierna Santa Giusta costruita sul posto della cattedrale del 1256 e precedentemente del San Giorgio di Goriano Valli, San Vittorino/San Biagio di Amiterno, San Quinziano oggi denominato San Biagio, la nuova Cattedrale sulla Piazza del Mercato, ed altre parrocchiali di cui non si ha memoria monumentale.
Nel frattempo si elevarono anche le chiese degli ordini religiosi tornati all’Aquila dopo la riedificazione o introdotti dopo il 1266: un secondo San Domenico – quello i cui resti nel corso dell’esemplare recente restauro condotto sotto la direzione dell’arch. Maurizio D’Antonio sono stati riscoperti a fianco dell’attuale, un San Francesco circa il 1270, una Santa Maria di Acquili circa il 1280, Santa Maria di Collemaggio nel 1275-87, Santa Maria Nova nel 1292 e, attorno al 1295 e non nel 1309 come riscoperto ultimamente dagli studi miei e di Maurizio D’Antonio, un terzo ed ultimo San Domenico, quello monumentale che ammiriamo in tutta levigata pietra concia, a tre navate e ben cinque absidi, l’esemplare architettonico più perfetto e rifinito in città, voluto e finanziato da Carlo II accanto al vecchio San Domenico divenuto cappella confraternitale di San Sebastiano.
Dal 1294 al 1316, quando cioè la città angioina fu ampliata alle attuali dimensioni e recintata dal circuito difensivo che ora possiamo riammirare con le sue torri (e spero fra breve anche nel suo unico antemurale rimasto, quello di Porta Barete), vi fu la terza e definitiva fase costruttiva di chiese. Ignoriamo quali e quanti locali si aggiunsero alla maglia urbana del 1266, perciò anche quali e quante chiese si costruirono. Esiste in proposito, tuttavia, la possibilità di individuarne alcune se nelle costruzioni sacre antiche, ancora esistenti all’esterno di quel che dové essere il perimetro urbano 1272-75, si riscontrino per esempio riferimenti dimensionali e tipologici attribuibili alle direttive urbanistiche statuarie del 1290. Crediamo dunque, nella fattispecie, edificate nel periodo in parola le chiese intus di Forfona, del Guasto, di Assergi, Tornimparte, Rascino, che appunto si apparentano nelle dimensioni e nella semplicità tipologica rettangolare che sembrano standard, e in quanto tali riferibili a detta programmazione degli anni novanta. Segnalo qui solo le principali caratteristiche dell’architettura sacra aquilana delle origini: l’impianto crociato dell’edificio a transetto più alto rispetto al corpo longitudinale, la facciata squadrata e il simbolismo architettonico.
Per la prima caratteristica, all’Aquila si constata una generalizzata preferenza per transetti incrocianti il corpo delle navi non a medesima quota, come di consueto, ma emergendo nettamente, campeggianti pur senza tiburio, sul colmariccio del piedicroce, determinando così organismi a croce immissa, innesto di due corpi contrapposti, uno longitudinale e l’altro trasversale più alto ed ampio. Questo sollevamento della massa prismatica produce, all’esterno, un movimento volumetrico originale e più dinamico rispetto ai comuni innesti a medesima altezza, e, all’interno, un effetto di dilatazione in spazio e luminosità, nel passaggio tra aula e nave traversa, più emotivo. La soluzione era abbastanza diffusa nel periodo romanico, ad esempio la basilica cassinese dell’Abate Desiderio, in Campania la Cattedrale di Salerno, e, sul versante adriatico, alcune note cattedrali pugliesi, quale quella di Trani, tuttora godibile, che hanno appunto transetti continui, indipendenti e sopraelevati sulle coperture longitudinali. In Abruzzo lo echeggiavano le romaniche Santa Maria di Ronzano presso Castel Castagna, la chiesa abbaziale di San Clemente a Casauria se fosse stata completata, la Cattedrale di Sulmona. Quanto al contado forconese, l’esempio più compiuto di tal fatta era il San Paolo di Peltuino prima delle superfetazioni, il quale, essendo di poco anteriore alla fondazione dell’Aquila, avrà fatto testo per le costruzioni aquilane. È questo preciso motivo tipologico che mi ha spinto ad intervenire sulla ricostruzione del transetto di Collemaggio. Non si è purtroppo accolta la mia proposta, ma pare si sia almeno sventato il primitivo riduttivo progetto: quello del tetto della navata centrale che continua senza interruzione fino all’abside, annullando in tal modo la dialettica tra corpo longitudinale e corpo traverso di cui ho detto, il che alla fine avrebbe assimilato la basilica ad un lungo interminabile capannone industriale. Notate, poi, che le testate di questi transetti terminavano invariabilmente a capanna. Si vedano quelle ancora esistenti pur se rimaneggiate di Santa Giusta e di San Pietro di Coppito, nonché, documentate figurativamente sul Gonfalone cittadino del 1579, quelle della Cattedrale e di Santa Giusta. E questo lo dico per la testata Est del transetto di San Domenico. Vi è ben noto che nei miei lavori io l’avevo fatta riprodurre a coronamento piano. A questo errore ero stato tratto dalla terminazione settecentesca del tetto, che scendendo a padiglione, ne taglia bruscamente in piano la parete. Ma Maurizio d’Antonio, direttore del restauro della grande chiesa, leggendo col suo occhio clinico i filari trecenteschi in pietra da taglio sotto la gronda che lo copriva, ha scoperto il segno chiaro delle due originarie pendive del frontone, che dichiarano come anche le testate del transetto domenicano terminavano a capanna.
Il contributo maggiore che l’architettura sacra aquilana offre a quella italiana consiste nell’originale ben noto schema di facciata chiesastica a coronamento orizzontale, sviluppatosi in città da fine ‘200 ma soprattutto nel primo ventennio del ‘300. Il singolare stilema, schermo quadrangolare che nasconde le forme a capanna dell’organismo interno delle chiese e per ciò stesso si costituisce a corpo architettonico a sé stante, simmetrico e dialettico al corpo traverso dei transetti e rivolto allo spazio esterno che filtra, non è esclusivo delle chiese dell’Aquila, né si può dire sia nato nella regione abruzzese. Lo troviamo infatti presente, tra XII e XIII secolo, nell’area pugliese ed in quella umbro-marchigiana e laziale ed a Roma stessa, dovendo essere gli esemplari ivi comparsi che, per la loro immediatezza e vicinanza, poterono determinare l’adozione della soluzione quadrangolare anche in Abruzzo e all’Aquila. Senza parlare di casi di facciate a coronamento piano fuori d’Italia, in Spagna, in Francia, persino in Olanda. Se però facciate a schermo quadrangolare esistono in Abruzzo, in Italia e fuori Italia, anche più antiche, la particolarità aquilana è che soltanto in questa città la tipologia si è applicata sistematicamente per tutte le sue chiese, e se ne è potuto lavorare ed elaborare lungamente lo schema in svariate versioni; sicché mentre fuori esso è eccezione, all’Aquila è regola. L’originale invenzione fu recepita all’Aquila già a fine ‘200 – lo sappiamo da quella di San Giustino o San Martino di Chiarino demolita nel 1935 – e diffusa poi in tutto l’Abruzzo come nota dominante fino al Seicento. Si giunse anzi, caso più unico che raro nella storia dell’arte abruzzese, a riesportarla nelle regioni vicine e addirittura nel Ticino, nel San Lorenzo di Lugano, dove fu certamente riportata nel secondo ‘500 dai mastri ticinesi da noi accomunati sotto la generica qualifica di ‘lombardi’ o ‘milanesi’, che fin dal XII secolo si erano stabiliti nella nostra zona e facevano continua stagionale spola tra l’Aquila e le valli alpine. Le eccezioni timpanate alla tipologia quadrangolare suddetta, apparse soltanto nel tardo ‘400 sulla facciata di Santa Maria del Soccorso e, nel ‘500, sulla fronte della Misericordia, non fanno che confermare la regola.
Ciò che particolarmente colpisce, in tale stilema aquilano medioevale, è la sua decisa orizzontalità, affermata proprio nel pieno trionfo del verticalismo gotico ufficiale francese e nord-europeo, più ancora dello stesso gotico mediterraneo ed italiano, che già per conto suo privilegia proporzioni placate e spazi e volumetrie misurate nei rapporti. Non si tratta di un attardarsi sul passato romanico da parte dei nostri mastri ed artisti, come spesso si sostiene e si continua a ripetere, ma di una scelta intenzionale anti-gotica e anti-platonica, riflettente una concezione di vita più confacente, sul piano filosofico, alla visione realista di Aristotele e, sul piano teologico, alla categoria evangelica dell’incarnazione, che attraverso proporzioni equilibrate e serene delle masse murarie ed architettoniche tende, con S.Francesco, a valorizzare le creature, non ad alienare la realtà terrena formulandone un giudizio negativo e pessimista. Uno stilema pertanto, questo della fronte quadrangolare aquilana trecentesca, che potrebbe anzi vedersi come una delle prime emersioni, in Italia, del movimento umanista e della corrispondente esternazione artistica, il Rinascimento.
Un’ultima caratteristica che delle architetture sacre aquilane dell’epoca angioina è da segnalare è il carattere simbolico di molte di esse, in forza del quale le chiese, nella loro ubicazione, orientamento, planimetria, forme architettoniche e plastiche, numeri e misure, possono esprimere categorie d’ordine teologico e antropologico, cosmico e tellurico. L’architettura religiosa aquilana, nascendo nel ‘200 in piena cultura simbolica, veicolata dai Cistercensi, ne riporta suggestivamente i segni, costituenti una chiave interpretativa necessaria da captare affinché le architetture sacre possano essere lette, comprese e valutate anche sul piano stesso della loro qualità spaziale, artistica e tecnica. Si tratta di ripetute irregolarità strutturali registrabili in alcune chiese due-trecentesche: il vistoso fuori-asse tra absidi e navate in Santa Giusta e in San Pietro di Coppito, ad esempio, e la diversa ampiezza delle navatelle non solo nelle chiese predette ma anche in Santa Maria di Collemaggio, nella Cattedrale trecentesca, nel San Francesco medioevale e in varie altre nel Contado come il San Michele a Villa S. Angelo, fuori Contado come Santa Maria della Tomba a Sulmona o Santa Maria della Vittoria a Scurcola, in Italia ed anche fuori Italia, ad esempio, si noti, la stessa gotica Notre-Dame a Parigi. Non è da ammettere la ripetizione di identico errore di costruzione, dipeso da presunta imperizia di mastri, in plurime differenti chiese anche di fuori territorio, e tanto meno la ripetizione di uguali anomalie in ricostruzioni e risistemazioni dopo i crolli dei terremoti. Sola convincente conclusione è che si tratti di planimetrie intenzionalmente anomale, di impianti spaziali volutamente irregolari: diversamente ne sarebbe preclusa la stessa razionale lettura. Planimetrie anomale scaturite, pertanto, da motivazioni architettoniche nascoste di cui s’era persa cognizione e coscienza: insomma, dai criteri del summenzionato ‘simbolismo architettonico’, di cui le associazioni di costruttori si servivano nell’intento di trasmettere iniziaticamente ai fruitori, talora magari al margine anche delle intenzioni dei committenti, i grandi temi biblici e teologici nell’architettura. Per la sua cronologia 1274-82 non è difficile conchiudere che sia stata la predetta architettura angioina di Santa Maria della Vittoria a Scurcola, ora demolita e ridotta alle sole fondazioni perimetrali, ad essere all’origine prima di tale simbolismo nelle planimetrie sacre aquilane due-trecentesche, rappresentando un altro importante contributo culturale degli Angioini all’architettura sacra aquilana.
Il fuori-asse o inclinazione dell’abside, corrispondente al capo del crocifisso, vuol simbolizzare il reclinamento del capo di Gesù quando morì sulla croce (et inclinato capite tradidit spiritum, si legge in Gv.19,30) e lo sfogo su un fianco di tutta la planimetria (espressa nella maggiore ampiezza, o unicità, della nave) il costato di Gesù trafitto e aperto dalla lancia del soldato (cfr. Gv.19,34). Ferita, apertura, da cui sgorgano sangue e acqua, simboli a loro volta dei sacramenti di battesimo ed eucaristia, quindi della Chiesa, che da questi nasce come Eva dal costato del nuovo Adamo ‘addormentato’ (ossia Cristo in croce) e come la colomba di Cantico dei Cantici 2,14 invitata dallo sposo (Cristo) ad uscire dalle ‘fenditure della roccia’ (che è il costato aperto di Gesù-roccia). Detti simbolismi, si noti, erano correnti nel Medio Evo, rimontando al tredicesimo-quattordicesimo secolo: l’epoca, guarda caso, della fondazione dell’Aquila e delle sue prime chiese, nonché, altro dato importante, l’epoca dello sviluppo della cistercense devozione all’umanità di Gesù, particolarmente di quella al sacro Cuore come espressa nelle forme del tempo da Santa Caterina da Siena e da altri mistici, ovvero attraverso il simbolo del costato trafitto e aperto, non ancora attraverso quello, magari oggi più noto ma seicentesco, del cuore infiammato come diffuso da Santa Margherita M. Alacoque. Anche al disegno quadrangolare di facciata, dove il tondo della finestra s’inscrive nel quadrato della parete, si attribuisce valenza iniziatica per il sussidio di conoscenza simbolica di cui è portatore. Infatti il binomio cerchio/quadrato, in quanto rappresentazione del cielo e della terra, rinnova l’indistruttibile ancestrale complesso simbolico di carattere cosmico, qui adattato ai contenuti dottrinali cristiani come segno dell’incontro fra il trascendente e l’immanente.
Rivendico d’essere stato il primo all’Aquila, nel 1988, a riaprire a questa lettura simbolica delle architetture sacre aquilane, re-individuandone le tracce. Simbolismo che, ripreso un quindicennio dopo in chiave più esoterica e da New Age da autori come Maria Grazia Lopardi, dal 2005 in poi il D’Antonio dal campo teologico-biblico a noi più proprio, va estendendolo a quello, più tecnico, dei rapporti geometrici. Furono purtroppo il rinascimento prima, lo scientismo poi, e specialmente l’illuminismo settecentesco e il positivismo ottocentesco nonché lo strutturalismo novecentesco, a spazzar via dalla forma mentis dei contemporanei la visione qualitativa del mondo che gli antichi possedevano. D’allora in poi architetti e maestranze, divenuti estranei, vennero avviati al mestiere edile con una formazione che ormai trasmetteva soltanto il sapere tecnico, non più quello olistico, dei tradizionali compagnonnages in cui la conoscenza simbolica aveva un posto privilegiato. Col quasi totale digiuno che si osserva oggi dei dati di fede di cui i monumenti sacri sono sostanziati, la lettura di questi non potrà che risultare distorta, falsata, nel migliore dei casi lacunosa, tale che tanti non avvertono più che la chiesa non è un contenitore murario qualsiasi suscettibile d’esser considerato solo monumento d’arte ed essere usato ad altri scopi, mentre invece essa intende riprodurre simbolicamente il mondo divino e la Chiesa-comunità, sia la visibile che la invisibile, la presente come la futura; anzi sarà il cielo stesso, il paradiso, la ‘Gerusalemme’ celeste presente in terra. Come reclama il Sequeri, occorre urgentemente, sia da parte dei committenti ecclesiastici che degli architetti, affrancarsi gli uni dalla “sprovvedutezza teologica” e tirannia dell’economico e del funzionalistico, gli altri dalla “sostanziale ignoranza religiosa della nostra cultura” e tutti recuperare la cultura della trascendenza, quindi “il sentimento della ineludibile densità simbolica di ogni percezione”.
da il Capoluogo
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