venerdì 19 agosto 2011

Luigi Fiammata: ecco l'haka aquilana

L'Aquila: lo stadio è vuoto

di Luigi Fiammata - Si sente solo il fruscio dell’acqua degli idranti. Nell’aria, e sull’erba. E resta lontano il rombo delle auto sulla strada. Anche perché, in fondo, su quella strada in salita ormai di auto ne passano poche.

Dalla tribuna si vede la montagna. I due corni, quasi uno solo. Certe volte bianco ghiaccio, che spira frizzante lungo le linee delle ali. Altre calcinato dal sole. Spesso, durante la stagione, coperto di nubi piombo, capaci di far arrivare acqua gelida sui sedili vip, e fulmini all’uscita dalle mischie.

Come le quinte inarrivabili di un palcoscenico, dove non si recita, ma si vive. Un grande sasso severo, che porta la terra fino al cielo. In spinta.

I gradoni scoscesi, di cemento vecchio, conservano l’impronta degli sguardi sul campo. Le pareti scrostate hanno il colore delle grida di meta. E le crepe delle sconfitte.
rugby

Ogni volta che entro, e percorro la breve discesa verso gli spalti, mi sembra di entrare dentro una cerimonia, e mi sento addosso timore reverenziale e silenzio, di chi deve ancora imparare. A non seguire solo l’ovale che rimbalza e spigola imprevedibile, come le fortune della vita, ma il disegno più profondo della squadra, che si dispone sulla scacchiera pronta a chiudere ogni porta, o aprire ogni speranza.

Vago con lo sguardo intorno, cercando i bambini e le bambine che, ogni volta, ignari del gioco, inseguono le loro corse libere, scalando i gradoni in equilibrio sfiorato. Mi tornano in mente gli occhi severi di quelli che scrutano dentro le mani dell’apertura, e sanno il piede dell’estremo, prima ancora che accada. E ascolto lo sberleffo all’arbitro che di mestiere fa il Signor Malaussène.

Ci vorrebbe il sostegno, sempre, e sapere che alle spalle hai uno pronto ad aiutarti, o a correre più veloce di te quando gli consegni il testimone. Correre avanti sapendo quello che hai dietro, perché la linea di confine dei tuoi limiti la vuoi varcare sempre. Nero e verde. E senza più macerie. Così dovrebbe essere. Non c’è nulla che significhi meglio il desiderio. E partecipare. Sapendo che si può essere anche sconfitti, ma solo perché gli altri sono più bravi e forti, e non perché tu ti sei tirato indietro o hai pensato solo ai tuoi interessi, a non arare l’erba, a non sporcarti la maglia. Perché alla fine della partita, l’applauso della città te lo sei meritato. E anche una tazza.

Mi viene in mente, mentre mi siedo nel vuoto, che quelli tutti neri hanno l’haka. E che dovremmo inventarla, una danza nostra.

Batti le mani contro le cosce. Batti le cosse.

Sbuffa col petto. Respira potente.

Piega le ginocchia. Sbatti ji peii.

Lascia che i fianchi li seguano. Movi ju corpu. Mai arrète.

Sbatti i piedi più forte che puoi. Scrocchia frà !

E’ la morte, è la morte. E’ la vita è la vita. Vinciamo la vita !

E’ la morte, è la morte. E’ la vita, è la vita. Refacemo la vita !

Questo è l’uomo dai lunghi capelli Esso noatri, esso noatri,

E’ colui che ha fatto splendere il sole su di me ! Loco in cima e sotto a bballe !

Ancora uno scalino, ancora uno scalino, ancora, jemo ‘nnanzi, jemo ‘nanzi sempre

Fino in alto. Il sole splende. Fino aju sole. Vola L’Aquila !

Che botta di presunzione. Anche se sono a L’Aquila da quasi 24 anni non dovrei permettermi questo. Che neanche lo so parlare e scrivere, l’aquilano. Però posso volere ancora una squadra. Posso tifare per avere ancora uno scudetto e tanta strada da correre. Posso cercare di avere tanta gente intorno che si diverte con rispetto e intelligenza. Posso guardare il tramonto e pensare che la città deve essere nata. E lottare per questo.
Aggiornato al 19/08/2011 11:40
da il Capoluogo

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